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ottobre 11, 2016

Jacob Collier, un pivello figlio di papà che si crede Benedetti Michelangeli

Arturo Benedetti Michelangeli
Ci voleva un concerto come quello del giovanissimo Jacob Collier l'altra sera al Teatro Verdi di Pisa, per l'Internet Festival, a farmi riprendere a scrivere sul Diario di un Miscredente, un concerto al quale non ho assistito perché dopo quaranta minuti di attesa, senza nessuna spiegazione da parte dell'organizzazione, ho alzato il culo e me ne sono andato, indignato per un comportamento da star capricciosa.
Proprio così, quaranta minuti (e chissà quando è cominciato il concerto) senza che nessuno si sia affacciato al palcoscenico a dire qualcosa, una grave mancanza di rispetto per il pubblico, che se fosse accaduto negli anni '70 (senza andare a scomodare le rivalità sette-ottocentesche tra francesi e italiani sulla musica) il pubblico, tutto, avrebbe se non seguito il mio esempio, certamente protestato ben più energicamente di quei timidi applausi di incoraggiamento che ho sentito. Altro che strategia da artista, come qualcuno ha suggerito.
Una giovanissima star già ampiamente annunciata su Internet che ha dimostrato le sue capacità su Youtube, lanciata nel firmamento della musica da quei furbacchioni della case discografiche, sempre in cerca di pivelli più o meno bravi (meglio meno) da assoggettarli alle loro regole, promettendogli soldi e fama; un sistema lucrativo e altamente efficiente nato alla fine degli anni '60 del secolo scorso, quando quei signori si sono accorti che Janis Joplin, Jimi Hendrix e compagni riuscivano, con il solo passa parola, a radunare migliaia di persone e ad esibirsi di fronte a loro.
E se agli albori erano la Columbia, la Atlantic e altre (oggi assorbita come tutte le altre da una delle tre major Sony, Universal e Warner) che iniziarono a incidere musica e concerti di artisti senza influenzarli, da allora le regole sono state dettate dal loro business mondiale il cui unico credo è: "il minor sforzo per il massimo rendimento"; quindi pivelli incapaci, circondati da arrangiatori e musicisti prezzolati (nel caso di Jacob Collier addirittura Quincy Jones) che facciano loro da mentore (da intendere: piegare ai gusti di quel mercato creato e drogato da loro stessi) e che spargano la voce che è bravo, anzi, un genio!
Il risultato è che la musica fatta dagli artisti, non esiste più. O meglio: la musica e gli artisti esistono ancora, ma la maggioranza sono nascosti e morti di fame. Lavorano per un tozzo di pane, ormai disillusi che l'avvento di iTunes (oltre 10 anni fa) fosse finalmente il viatico, grazie alla Rete, per far conoscere la propria musica a un pubblico mondiale.
Pure il potente e visionario Steve Jobs, dopo aver stimolato musicisti ed etichette indipendenti, si è dovuto piegare, da quell'uomo d'affari che in fondo era, per difendere il proprio business, ai diktat delle case discografiche, riuscendo ad ottenere (solo dopo il 2009) la possibilità di DRM (diritti digitali) un po' meno restrittivi.
E il pubblico/consumatore, privato della minima facoltà critica (privazione che in Italia ha radici lontane) ha accolto con superficialità ed entusiasmo "fenomeni" come Giovanni Allevi e ora Jacob Collier.
Per quelli come Collier che non è Arturo Benedetti Michelangeli, basta Youtube, non è necessario un teatro pubblico con in relativi costi di apertura e gestione. E non ha avuto neanche la scusa del grillo sulla pianta degli addobbi, che avrebbe disturbato le limpide note del suo pianoforte.
A presto.

John El Guado